… e poi mia madre mise una singola pesca su un piattino al centro del tavolo. Con un coltello la divise in quattro.
Basta la prima pagina di Come dividere una pesca, titolo originale, If an Egyptian cannot speak English, libro di esordio della scrittrice Noor Naga , per sapere già che sarà una lettura “scomoda”.
La città del Cairo, brutale e caotica, fa da sfondo a una storia che intreccia l’amore, la ricerca del proprio io ma, soprattutto, traccia un quadro politico complesso in cui vengono a galla disparità e mondi opposti.
Come dividere una pesca
Noor Naga
Ed. Feltrinelli
Non una classica storia d’amore quindi ma più una tragedia di due mondi che si scontrano, una storia fatta di domane e risposte, dove la lingua, l’identità e la ricerca di un senso di appartenenza sono sempre in primo piano.
Non c’è nulla di cui stupisti, del resto sì sa, a noi le storie d’amore “classiche” e convenzionali non ci sono mai piaciute piacciono. Adoriamo, invece, quelle storie d’amore complicate che hanno un percorso tortuoso alle spalle, fatte di cambiamenti, esperienze e di dichiarate incompatibilità.
DOMANDA: Un uomo e una donna possono feticizzarsi a vicenda in egual misura, o c’è sempre uno dei due che è più preso dell’altro?
Lei è un’americana laureata alla Columbia, figlia di genitori benestanti emigrati, testa rasata, abiti mai abbastanza castigati, se ne va in giro senza velo attirando l’attenzione e spesso i rimproveri dei passanti. Lui un egiziano nato in un villaggio “che nessuno ha mai sentito nominare”, tanto povero quanto orgoglioso, ha documentato la rivoluzione con la sua macchina fotografica dalla quale non si separa mai, e quando tutto è crollato, quando gli stranieri se sono andati, è caduto in una spirale di droga, apatia e depressione.
Non conosciamo i loro nomi e forse non è nemmeno così fondamentale.
Si incontrano al Cairo, sei anni dopo la rivoluzione del 2011 che non è riuscita a portare il rinnovamento tanto sperato, da quel momento la loro vita non sarà più la stessa. La ragazza, figlia di egiziani benestanti emigrati negli Stati Uniti, è in cerca delle sue “radici”, come dice la madre in tono sprezzante.
È allora possibile che la fragile relazione nata tra i due protagonisti senza nome li aiuti a ridare un indirizzo alla loro esistenza? O forse invece la distanza culturale rimarrà incolmabile? Come può una ragazza che si vantava di non piegarsi mai davanti alle ingiustizie tollerare il maschilismo e la violenza di un ragazzo ossessionato dalle proprie convinzioni?
Mi ha detto che veniva da un villaggio, Shubra Khit. Mi ha detto che un abitante di New York e uno del Cairo hanno più cose in comune di un abitante del Cairo e uno di Shubra Khit, anche se non mi ha voluto dire quali fossero queste cose in comune.
Abbiamo detto una lettura “scomoda” e questo senso di scomodità si fa notare subito nel modo in cui la scrittrice imposta l’intero libro, sotto forma di domane e risposte. Domande scomode, per l’appunto, che fanno fantasticare il lettore sulle possibili risposte che si daranno i protagonisti in un rimpallo di punti di vista differenti.
Risposte che molto spesso non arriveranno mai.
E su questa diversità di vedute, dettate dalla cultura di origine e da difficoltà e incomprensioni linguistiche, dove lui parla l’arabo che lei desidera possedere e che invece non le appartiene e lei ha la ricchezza che lui non ha mai avuto e gioia di vivere che ha perso da tempo, che si innesca un gioco perverso di attrazione e di repulsione.
E la pesca?
Bhè la pesca in realtà è la vera protagonista di questo libro e quel gesto di provare a dividerla in partii uguali non è altro che una metafora del mondo, che si cerca di tagliare per bene affinché tutti abbiano la loro parte equa, ma in realtà è tutto sempre molto complesso.
Non c’è giudizio, ma c’è molto per far riflettere un Occidente spesso cieco e che abbandona.
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